Racconto

È mattino. Il mare si estende con calma. Il ventre dell’umanità non manda segni. Riflette i colori del cielo. Blu grigio argento bianco scuro. L’acqua, spinta da una forza-non-forza, dondola leggermente, si precipita – lambisce la sabbia asciutta, un sasso – e torna lontano. Sugli scogli dei frangenti un pescatore. Una ragazza nuota a riva. Alle barche è permesso uscire al largo senza ostacolo, per loro è stato lasciato un passaggio.
Le spiagge libere si a affollano pian piano. Asciugamano si accosta ad asciugamano. Il palo dell’ombrellone portato da casa viene piantato nella sabbia con tutta la forza. La mano di un uomo che spalma la crema solare sulla schiena della sua compagna è rapida e sgarbata. Lei poi si siede sulla sdraio. Lui parte. Gira a destra. Il sole sulla pancia e in faccia.
Nelle sezioni di spiaggia in concessione l’ordine delle sedie a sdraio detta dagli anni sessanta l’arrivare e lo stare in due. Come in teatro le poltrone in prima la sono più costose e sono spesso prenotate per tutta l’estate dalla gente del posto. Alcuni vengono solo il sabato e la domenica.

Miss Kitty unidimensionale-asciugamano si è distesa su uno dei lettini in prima fila. Una ragazzina siede sulla sabbia accanto a lei. Parla con sé stessa e con gli amici invisibili che la circondano. I surfisti arriveranno solo nel pomeriggio, quando il vento si volgerà e agiterà l’ora apatico specchio d’acqua. I bagnini sono seduti sui loro appostamenti vicino alla riva, rimangono all’ombra, sudando, osservando. Uomini del Senegal camminano per chilometri e chilometri, lottano per ottenere attenzione e guadagno. Uomini di altre parti del mondo fanno loro concorrenza. Chi era il primo? Da qualche anno tra loro si vedono anche donne: del Senegal, del Marocco, dell’India, dell’Indonesia e di altri paesi asiatici. Alcune offrono dei massaggi direttamente sulla sedia a sdraio del turista, altre intrecciano lunghi capelli biondi. I vecchi invece che si trovano vicini ai punti di vendita istallati sulla sabbia guardano i bambini piccoli che gattonano verso l’acqua come le tartarughe appena nate. Ma i vecchi sono anche i fari delle loro comunità. Danno l’allarme quando si avvicina la polizia e in un attimo i teloni di plastica blu, distesi sulla sabbia con sopra le borse di Moncler, spariscono.
Vengono venduti anche dei libri. Sono gli autori stessi, con i loro amici: raccontano la loro emigrazione e le storie di chi ha trovato o di chi ancora è alla ricerca di una seconda patria in Italia. Una casa editrice milanese pubblica questi racconti. In estate vengono venduti sulla spiaggia, in inverno nelle grandi città.
I marocchini vendono bikini per cinque euro. Si tirano dietro i loro carri, si fermano, aspettano. Delle donne si avvicinano.

Io vado in acqua. Un passo, due passi. Piccoli pesci scappano dai miei piedi lunghi. Una donna sale su una canoa, pagaia passando troppo vicino a me. Foglie di alghe si avvinghiano alle mie caviglie. Potrei farle seccare per poi scriverci sopra?
L’acqua è calda. Mi giro verso la spiaggia e incontro lo sguardo di un uomo che cammina sul lungomare. Indossa un costume blu azzurro che gli arriva fino alla metà del femore. In una rivista inglese viene descritto come uomini di diverse nazionalità – francesi o italiani ad esempio – si abbiglino per andare a passeggio sul lungomare. Mentre i francesi si mettono pure la camicia, gli italiani indossano un costume piuttosto stretto e nient’altro. Sarebbero fieri dei loro peli e di portare la loro bella figura nel sole su e giù per il lungomare.
Una donna si lamenta con un’altra che in tivù fanno vedere soltanto il commissario Montalbano. Forse il commissario veneziano Brunetti le piacerebbe di più, ma Donna Leon non è conosciuta in Italia.
Un venditore ambulante lega un aquilone dopo l’altro ad un filo lunghissimo. Le creature di carta salgono in cielo tanto da poter essere viste dalle colline dell’entroterra. Là fioriscono i campi di girasole. L’Unione europea al momento paga di più per i semi di girasole che per le melanzane.

L’inizio è facile. Si va a destra o a sinistra. I pensieri ballano all’orizzonte e si perdono mentre l’acqua, spinta a riva da quella forza-non-forza annulla l’idea che, con sguardo vagabondo, per caso si è fissata su una piccolissima torre di sabbia creata da un cannello di mare. Camminando le cose si metteranno a posto – così parla la Speranza, così parla Thoreau, per il quale camminare fu ricerca della fonte dell’esistenza. Anche i romani dell’antica Ostia, ai quali era permesso scegliere liberamente le divinità da venerare, gradivano il passeggiare lungomare. Li posso immaginare in due, con gesti e con nelle parole trovare l’argomento giusto e fare spazio a nuove idee. Lo spazio. „Der Raum“ in tedesco. La lingua italiana usa la parola „spazio“ per vari significati, per esempio lo spazio del tempo, nel mondo, ma anche dare spazio a qualcosa nella vita. Il concetto rimane elastico. Nella lingua tedesca dalla stessa radice di spazio deriva il verbo spazieren. Passeggiare. Camminare.

Mi decido ad andare a sinistra. Il sole brucia sulla mia schiena. Seguo la mia ombra. Garriscono i gabbiani. Non li vedo. Una parte del mio corpo scende di più nella sabbia dell’altra. Il mio bacino si sposta. Non si può andare per troppo tempo nella stessa direzione senza osare una puntatina tra le file di sedie a sdraio, oppure semplicemente stare fermi per poter arrivare con lo sguardo all’orizzonte – la cucitura che tiene unito il mondo.

Quando ero bambina quasi ogni anno i miei genitori partivano per il mare con noi tre sorelle. Ci coricavamo nel mezzo della notte dentro la loro macchina da classe media. Mettevano la più piccola sulla cappelliera e me sul sedile posteriore, mentre lo spazio tra quest’ultimo e i sedili anteriori veniva tamponato con un gommone per un terzo pieno d’aria. Là dormiva la terza sorella. È andata sempre bene. Non ricordo imprevisti, neanche un garbuglio tra noi sorelle o che una di noi fosse scivolata sopra l’altra. Non c’era nemmeno l’obbligo delle cinture. Mio padre e mia madre – senza preoccuparsene più di tanto – ai doganieri di Chiasso davano l’impressione di quello che erano: dei semplici turisti in viaggio per le vacanze, partiti nel pieno della notte.
Una volta arrivati lì, nell’hinterland, dove gli appartamenti dalle grosse tazze da colazione in vetro erano meno costosi di un albergo fronte mare e dove la nostra integrità era meno minacciata dai ragazzetti dagli occhi scuri o dalle cianfrusaglie del mercato, disfacevamo le nostre valigie, mettevamo tutto a posto e finalmente partivamo per la città con quel lungomare esteso da una baia all’altra. Cercavamo un parcheggio per la nostra auto da ceto medio e, insieme al salvagente e ai braccioli, che, mentre mio padre guidava, noi gonfiavamo, ognuna di noi portava le sue cosette il più vicino possibile alla riva.
Poi allargavamo i nostri teli da mare. Quando c’era vento li ancoravamo alle estremità con delle pietre. Mio padre posava la sua sedia pieghevole con sopra il suo telo a strisce vecchio già allora di almeno trent’anni. Ma non si sedeva subito per una dormitina, per completare il cruciverba portatosi dalla Svizzera né si metteva a filmare noi tre mentre costruivamo le torri di guardia o dei solchi d’acqua per i coccodrilli. Queste attività venivano in un secondo momento, sempre che nel frattempo non avesse trovato qualcuno con cui giocare a bocce. Mio padre entrava subito in acqua e si allontanava dalla riva per poi tornare a metà della sua nuotata. Da lì ci chiamava. Poi ci insegnava a nuotare oppure ci salvava per scherzo dall’affogare. Dopo il bagno si infilava qualche banconota nel costume, se ne andava e non si faceva più vedere per delle mezze giornate. Camminava lungo la riva per ore e ore.
Andava sempre nella stessa direzione? Può darsi che cambiasse, passando dietro di noi, sul marciapiede della strada che seguiva tutto il lungomare, per restare un po‘ più tempo da solo. Non ce ne accorgemmo mai. Soltanto chi è pronto a passare del tempo con sé stesso può passeggiare da solo. Mio padre non portava mai l’orologio. Il tempo era il tempo, un minuto aveva sessanta secondi. All’orizzonte, forse, scopriva l’impossibilità di un’intenzione o chi avrebbe voluto essere e cosa fingeva di sapere sulla vita. Forse si salvava dallo scendere negli abissi del proprio essere, dove soltanto credere e dubitare rimangono condizioni vere, bevendo un caffè al bar. Forse, mentre camminava, si accorgeva di quante volte fosse stato solo, anche se era uno di tredici gli. Non lo so. Mio padre non raccontava tante cose di sé. E dalle passeggiate tornava sempre soltanto con mezze storie oppure con una squadra di giocatori di bocce.

Un ragazzino spiega a suo padre come pianifica il suo castello di sabbia. Il padre indica cose sul suo Smartphone. O sta registrando? Un altro venditore ambulante gonfia dei pinguini di plastica. Le loro zampe sono appesantite per farli stare eretti nell’acqua.
Qui e là raccolgo delle conchiglie oppure mi abbasso per un sasso qualunque, per un vetro latteo o per dei cocci quasi morbidi. Cose che arrivano da chissà dove. Da Venezia? Dai Caraibi? Un bottino di pirati? Cose alle quali io attribuisco un significato; cose che, di anno in anno, si impolverano nella mia privata collezione. Fino al giorno in cui il loro significato viene meno, no a quando non hanno più niente da raccontare.

Ogni tanto mi riprometto di avanzare ritta, un pochino tesa, sorridendo se possibile, fermandomi di tanto in tanto a guardare ancora una volta l’orizzonte per seguire una barca che crepita verso riva o si allontana da essa. Ma quando cammino con la schiena dritta temo che il mio piede calchi una medusa portata a riva, una conchiglia frantumata o che un patellogastropoda si appiccichi al mio piede. Questo in realtà non è mai successo e non sarebbe neanche pericoloso. L’umile ermafrodito potrebbe solo turbarmi, mentre il frantume di conchiglia forse mi taglierebbe la pelle. Una medusa, invece, l’anno scorso mi ha urticato la pianta del piede. Per questo motivo sto imparando ad avanzare con un occhio in basso e l’altro in avanti, come quel venditore ambulante di pellicce a Napoli che, mentre controllava la sua roba preziosa in una borsa gigante appoggiata ai suoi piedi, riusciva ad avvistare una pattuglia della polizia oppure un cliente interessato.

Se non succede niente, il che è molto più probabile, sposto minuto dopo minuto la mia meta. Arrivo fino all’Hotel Playa, fino alla rete del campo di beach volley. Poi mi girerò. Così passa un’ora, anche due. Forse seguendo con lo sguardo un uomo, una donna. Tutti i movimenti spariscono come i pensieri che arrivano e ripartono o si girano, poi scappano. Spesso ho cercato di fissare un’idea nella mia mente e ripromettendomi di annotarla poi nel mio taccuino.

Lentamente mi giro e ripercorro lo stesso cammino. Precedo la mia ombra. L’uomo dalla mano sgarbata incrocia il mio passo, forse la sua compagna dormiva quando è ripassato vicino a lei. Il tempo è cambiato, fa più caldo, sono nati dei bambini, da qualche parte un atto terroristico, un capò abusa di una bracciante immigrata in un campo di pomodori, altrove un aereo atterra dove i passeggeri non sono mai stati o dove vanno da sempre. Tempo novanta minuti e la stazione spaziale internazionale concluderà un’altra orbita attorno alla terra. Forse è sopra di noi. Forse ora è nella notte dall’altra parte della terra. Il nostro tempo nello spazio non significa nulla.

La riflessione nel camminare è più facile quando le spiagge sono vuote. Ma tanto spazio libero in questa riviera si può pretendere soltanto in una giornata di bora* con pioggia orizzontale. In estate la spiaggia è occupata giorno e notte. Qualche venditore ambulante e chi è arrivato dai luoghi di guerra o di fame dormono tra le barche che la sera prima sono state tirate fuori dall’acqua. Gli ospiti notturni spariscono al levar del sole, quando arrivano anche le zanzare o la guardia costiera. Forse hanno acceso un fuoco, forse hanno bevuto, ballato, parlato e pianificato come poter andare avanti. Portano via le bottiglie, la cenere viene interrata. Il loro quartiere notturno non deve essere svelato dalle immondizie. I venditori recuperano dai nascondigli le cose da vendere e si preparano per la lunga marcia, spiaggia dopo spiaggia, fila dopo fila.
Vicino alle barche aprono i bar. Dalle sedie a sdraio i bagnini puliscono le tracce della notte, tracce di chi è fiero di aver passato la notte fuori, e non gli importa di venir scoperto. Si aprono gli ombrelloni. Arrivano i vacanzieri. E il mare si estende con calma. Il ventre dell’umanità non manda segni. Riflette i colori del cielo. Blu grigio argento bianco scuro. L’acqua, spinta da una forza-non-forza, dondola leggermente, si precipita – lambisce la sabbia asciutta, un sasso – e torna lontano.

*La bora è un vento catabatico secco, freddo e burrascoso. È uno dei venti più forti del mondo. Sul suo percorso tra Trieste e la costa montenegrina passa anche per lo stivale.

Questo racconto è parte del libro d’artista:

Strandläufer, lungomare – Foto Essay – immagini e racconto: Sibylle Ciarloni – poesie: Andrea Angelucci

Il libro può essere comprato scrivendo una Mail.

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